«Il Dio della cura: un rilancio a partire dalla Scrittura. Interrogazioni all’AT e a partire dall’AT»
Giandomenico Cova
La relazione sarà scandita in tre tempi:
– una premessa di carattere metodologico, nella quale si presenta la problematica che comporta la domanda alla Scrittura relativa alla tematica del convegno;
– la ricerca di un campo semantico in cui verificare la terminologia della cura e di luoghi significativi per ipotizzare/individuare un eventuale orizzonte comune;
– presentazione di una scelta di questi luoghi, in particolare:
* alcuni punti della storia di Giuseppe in Genesi
* alcuni punti delle storie di Elia e Eliseo in 1 e 2 Re
* note su Osea 11
* note su Rut
dall’esegesi dei quali trarre una breve conclusione prospettica.
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«Malattia come salvezza? Esempi di “fragilità curata” nei personaggi minori di Marco»
Paolo Mascilongo
Partendo dagli spunti offerta da alcune opere di Pagazzi, approfondisco la questione, dal punto di vista esegetico, del rapporto malattia/salvezza nell’agire di Gesù.
In alcuni episodi del Vangelo secondo Marco si narrano incontri tra Gesù e persone fragili, spesso estremamente fragili, quasi dominate dalla loro situazione di impotenza, sotto diversi aspetti; prevalentemente fisico, ma anche sociale, religioso, ecc. Un esempio particolarmente forte è la donna emorroissa di cui si narra in Mc 5. Donna, malata, impura, probabilmente esclusa dalla vita religiosa e sociale della sua città.
Da questa situazione di estrema miseria, la donna esce grazie all’incontro con Gesù. Nell’episodio si parla esplicitamente di fede e di salvezza, espressioni importanti per la teologia di Marco. Ciò che è descritto si può leggere come l’incontro tra miseria, fede e grazia, il tutto che produce salvezza. Di solito si sottolinea l’importanza della fede e della grazia perché avvenga il miracolo (così, ad esempio, un classico sul tema: «Faith saves because it allows God’s saving power in Jesus to save. Both pistis and dunamis are active agents, and it is therefore quite fitting to identify faith itself as the saving power», Marshall, C. D., Faith as a theme in Mark’s narrative, Cambridge – New York – Melbourne 1989, p. 109); più raro che si aggiunga anche la necessità/il valore della malattia o della fragilità, che resta, in realtà, come il movente principale dell’incontro salvifico con Gesù. La miseria è l’occasione perché la donna, dopo dodici anni di pene e sofferenze, raggiunga la salvezza. Non è ostacolo, ma occasione.
Questa dinamica si ritrova in molti episodi che coinvolgono i personaggi minori di Marco, in altre situazioni di fragilità. Così il lebbroso di Mc 1, il paralitico di Mc 2 (sottolineatura ecclesiologica, i 4 che portano), i discepoli sulla barca in tempesta (Mc 4), l’indemoniato di Mc 5,1-20 (Legione), il figlio epilettico di Mc 9, il cieco Bartimeo in Mc 10. Anzi, sembra quasi che l’intera narrazione incentrata sui personaggi minori abbia l’intento teologico di dimostrare questo asserto: fragilità e miseria sono la condizione perché avvenga l’incontro con Gesù (che incontra quasi esclusivamente in Marco tali fragilità) e quindi perché si giunga alla salvezza. Che la fragilità si muti in salvezza è in fondo anche l’esito della vicenda del protagonista Gesù. Marco sembra sottolineare questo aspetto, anche per la cristologia, che è la più vicina alla theologia crucis tra tutti i Vangeli.
La comunicazione illustrerà questa dinamica presente in Marco a partire da Mc 5, presentato con maggiore ampiezza, per poi allargare all’intero Vangelo e accennare alla theologia crucis che ne costituisce il vertice teologico.
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«La cura del corpo di Gesù nel Vangelo di Giovanni:
Maria di Betania, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea discepoli-familiari»
Michele Grassilli
Il contributo si propone di sondare la relazione tra l’episodio dell’unzione di Betania da parte di Maria sorella di Lazzaro (Gv 12,1-11) e la sepoltura di Gesù da parte di Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (19,38-42). Nel primo racconto, ambientato durante una cena in onore di Gesù, è narrato il gesto di Maria interpretato simbolicamente dal protagonista in riferimento alla sua sepoltura (Gv 12,7). Anche le coordinate narrative entro cui si svolge la scena rimandano alla festa di Pasqua, alla vigilia della quale Gesù è messo a morte e seppellito con una grande quantità di aromi.
Nell’azione di Maria la sepoltura è anticipata e nel gesto di Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea realizzata. Essendo la preparazione della salma per la sepoltura compito dei familiari o dei parenti stretti del defunto, da un lato, Maria, Giuseppe e Nicodemo svolgono il ruolo di chi è particolarmente vicino a Gesù; dall’altro lato, Giuseppe e Nicodemo, mentre chiedono il corpo a Pilato e se ne prendono cura per la sepoltura, escono dal nascondimento e si manifestano come discepoli a tutti gli effetti, anche se non testimoniano la loro fede con la parola, ma incarnano la loro professione di fede nell’agire. Inoltre, la modalità della sepoltura con sovrabbondanza di aromi e la deposizione del corpo in un sepolcro nuovo sottolineano la regalità di Gesù in continuità con una serie di indicazioni presenti nella sequenza della passione e morte (cc. 18–19), una caratteristica che si può ritrovare nella connessione tra l’unzione di Betania e ingresso messianico del «re di Israele» a Gerusalemme (12,12-19).
Entrambi gli episodi sono caratterizzati da un’abbondanza di sostanze profumate, rispettivamente mirra e aromi. Il profumo che riempie la casa dei commensali è posto in stretta relazione al segno di Lazzaro richiamato in vita, e mira a indicare che la morte di Gesù produce un profumo di vita che attira tutti a sé: il profumo della risurrezione. Gli aromi profumati a contatto con il cadavere avvolto nei teli funerari vogliono custodire il corpo e ritardarne la corruzione. Pertanto, da una parte, la cura nei confronti di Gesù sottolinea l’umanità del Logos incarnato e dall’altra mostra una trasformazione di coloro che esercitano la cura: Giuseppe supera il nascondimento per paura dei giudei e così anche Nicodemo, capo dei giudei, «fa la verità e viene verso la luce» (3,21).
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«Il Dio della cura e l’esperienza della croce»
Maurizio Marcheselli
Abstract. Nel parlare della cura non ci si può sottrarre al tentativo di elaborare una theologia crucis. In questo contributo cercherò di farlo, concentrandomi sull’episodio del Getsemani nella versione matteana (Mt 26,36-46). Non prenderò in esame il racconto – forse più «classico», da questo punto di vista – della morte e del grido di Gesù in croce: non perché sia più difficoltoso, ma perché mi pare più… scontato. In verità, tutto si fa chiaro già al Getsemani: la morte in croce deve essere interpretata sulla base di questo episodio che la precede.
La ragione della scelta di Matteo (e non di Marco) è data dal legame redazionale che Matteo, e lui soltanto tra gli evangelisti, ha stabilito tra il Getsemani e il Padre Nostro (PN): la pericope matteana del Getsemani illumina il senso del PN (specificamente della terza e della sesta e settima petizione) e viceversa.
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«Il boccone di Giuda come rib gestuale, alla luce della “cura universale” di Gesù»
Davide Arcangeli
Nel quadro di una riflessione sulla theologia crucis giovannea, il breve contributo intende soffermarsi sul simbolo del boccone dato da Gesù a Giuda durante l’ultima cena (Gv 13,26) per comprendere tale gesto come segno di «cura» da parte del Gesù giovanneo nei confronti del discepolo-apostolo traditore.
Per l’esegesi classica tale gesto serve principalmente per smascherare il traditore (cf. R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni. IV, 58), interpretato come uno strumento pronto nelle mani di Satana (cf. C. K. Barrett, The Gospel According to St. John, 436). Inoltre si sottolinea giustamente ma unilateralmente il protagonismo di Gesù, che rimane il vero attore del dramma consegnando il boccone a Giuda e ordinandogli di andare a compiere ciò che ha in mente (cf. K. Wengst, Il Vangelo di Giovanni, 541), per compiere le Scritture.
Il problema esegetico e di conseguenza teologico rimane quello di stabilire il particolare significato che questo gesto e queste parole significano in relazione al personaggio di Giuda. I primi versetti del c. 13, dove è enunciato il punto di vista ideologico del narratore attraverso la consapevolezza di Gesù e l’esplicitazione dei suoi sentimenti («li amò sino alla fine») deve orientare anche l’interpretazione del gesto del boccone in relazione a Giuda. Esso non può se non costituire un gesto di intimità e di amore nei confronti del discepolo traditore.
In particolare si discute la possibilità di interpretare questo gesto come un rib gestuale, ossia un’accusa di stampo profetico, rivolta a Giuda, in vista del suo destino definitivo. In questo caso il rib consisterebbe nella consegna stessa di Gesù a colui che lo tradisce, in grado di trasformare dall’interno l’atto stesso del discepolo. Questa posizione interpretativa riceve conferma alla luce degli studi sulle tematiche giudiziarie presenti nel QV, che richiederebbero una migliore fondazione a partire dal background giudaico (cf. A.T. Lincoln, Truth on Trial: The Lawsuit Motif in the Fourth Gospel).
Si intende infine rafforzare tale argomentazione con una breve riflessione sul tema della predestinazione nel QV, in relazione alla «cura universale» di Gesù che si esprime nel suo innalzamento sulla croce.