«Paolo di Tarso, un uomo curato dalla grazia»

Nicola Gardusi

“Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia con me non è stata vana” (1 Cor 15, 8-11). Paolo si presenta come “un uomo inquieto, un apostolo insuperabile” usando la felice definizione che ne da il noto biblista domenicano irlandese Jerome Murphy O’Connor in uno dei suoi libri dedicati alla figura del “Dottore delle Genti”. In questo passo della sua prima lettera ai Corinzi pare emergere con chiarezza la lotta interiore di quest’uomo, di questo discepolo di Gesù Cristo, una lotta che lo accompagnerà per tutta la sua vita e per tutto il suo apostolato. E’la lotta tra l’uomo “vecchio” che deve morire e l’uomo “nuovo”, ad immagine di Cristo “nuovo Adamo”, che ogni credente deve affrontare e che si delinea così fortemente nella vita dello stesso apostolo. Ci si può chiedere come e per cosa questa lotta, questa fatica, questa sofferenza si scatena in Paolo che la testimonia. Senso di colpa per il passato? Un limite o una fragilità che non riesce ad integrare? Una situazione che lo fa soffrire? Senza entrare in sottili psicologismi che a noi non interessano ci sembra di scorgere che “la potente cura” per vivere in questa inevitabile tensione di debolezza, per l’apostolo Paolo, sia la grazia del suo Maestro e Signore Gesù Cristo. “Ti basta la mia grazia, la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12). Su questa grazia intesa come “cura” intende vertere il nostro contributo senza la pretesa di una vera e propria esegesi dei testi paolini per sostenerne la tesi. Sarà piuttosto un immaginare, un dare un po’ di spazio alla fantasia senza dimenticare il rigore scientifico, per abbozzare una “teologia della grazia come cura”  così importante e rilevante nella figura di questo uomo il quale, lasciandosi curare per primo da essa, ha saputo anche curare gli altri “generando” figli e figlie nella fede in Gesù. Cercheremo perciò di analizzare alcuni testi o passaggi del corpus paolino che mettano in evidenza “la cura” che il Signore compie sull’uomo Paolo, i suoi “effetti terapeutici” riscontrati dallo stesso e le inevitabili ripercussioni sul suo ministero e annuncio. Infine proveremo a trarre alcune conclusioni che possano essere utili anche per noi oggi quando parliamo di “ministero” o di “ministeri” nella Chiesa.

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«“Che cosa vuoi che io faccia per te?” (Mc 10,51). La prassi di Gesù e della Chiesa verso le persone malate»

Luciano Luppi

Punto di partenza: esistono due prassi ecclesiali apparentemente parallele e non comunicanti, quella della amministrazione dell’Unzione degli Infermi e quella delle preghiere di guarigione, la prima valorizza il segno corporeo della unzione e mette il focus sulla guarigione spirituale, la seconda valorizza l’arma spirituale della preghiera e mette il focus sui segni di guarigione fisica/psichica.

Come fare dialogare le due prassi per una integrazione feconda in vista di una Chiesa madre capace di prendersi cura del bene integrale (salute/salvezza) di chi vive l’esperienza della malattia?

Una pista feconda sembra quella di rivisitare la prassi di Gesù, del suo prendersi cura di chi è colpito da malattia e disabilità alla luce anche degli studi di antropologia culturale contemporanei (Csordas, Quaranta, Byung-Chul Han, Pulcini…). L’obiettivo è far emergere l’approccio di Gesù, che con gesti e parole (corporalmente), mettendo al centro la persona e non la malattia, mette in atto un processo articolato e semplice insieme, che mira alla guarigione integrale della persona malata/ferita e delle persone e cultura che lo circondano, a cominciare dal restituire dignità, parola e legami vitali alla persona malata/ferita.

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«La cura del congedo»

Brunetto Salvarani

Spunti iniziali: Lc 7, 11-17 (La vedova di Nain) e il film Departures (2008) di Yojiro Takita

  • Vedere. Il contesto: la rimozione della morte in ambito sociale e culturale e di una riflessione sull’aldilà in ambito ecclesiale; cause e prospettive. La carenza di cura nell’arte del congedo e gli effetti sempre più trasparenti di liturgie spesso afasiche, affrettate e/o trasandate
  • Giudicare. Il ritorno sulla scena sociale della morte nel tempo della pandemia globale e l’impossibilità di un saluto al morente: interrogativi e riflessioni
  • Agire. Sulla necessità di una teologia che curi al meglio l’arte del congedo e le relative liturgie

Bibliografia minima: B. Salvarani, Dopo. Le religioni e l’aldilà, Laterza 2020

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«Il locandiere e i due denari. Ombre e luci in un mondo senza cura»

Matteo Prodi

Vedere

A cosa ci ha portato l’economia attuale?

Sanità; lavoro; scuola/istruzione/università; disuguaglianza

C’è un pensiero unico che ha costruito tutto questo? Libertà e proprietà privata come pilastri della non cura.

Come viene curato l’uomo di oggi dall’economia? Come viene riplasmato l’uomo? Da Marx alla Zuboff (Il capitalismo della sorveglianza).

Giudicare

Bibbia: Lc 10 e 16 (Luise Schottroff); papa Francesco; alcuni economisti: Piketty e Stiglitz; Mazzucato (sul ruolo dello Stato).

Agire

La pre-distribuzione; la re-distribuzione.

I soldi ci sono o no? Il tema del debito.

Cosa può fare l’economia per la cura? Può l’economia collaborare alla felicità? Con quali piste concrete? Scuola, sanità, casa, lavoro…

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«Cura di sé e cura dell’altro. Linearità e criticità di una relazione»

Pier Luigi Cabri

1- Un adagio ebraico costituisce una formidabile sintesi della problematica contenuta nel titolo dell’intervento e in generale del pensiero etico: “Se io non vivo per me, chi vivrà per me? Ma se io vivo solo per me, chi sono?”.

È giusto (etico) vivere per sé ma non è sufficiente, anzi chi vive soltanto per sé inevitabilmente è posto di fronte alla grande e inquietante domanda esistenziale, la domanda che riguarda e tocca profondamente la propria identità: “chi sono”?

2- L’identità del soggetto secondo il filosofo Lévinas è fondata sulla relazione con l’altro, letta e sviluppata in termini di responsabilità e di cura.

Rispetto al sottotitolo Lévinas esprime la posizione lineare: il soggetto, l’io, scopre la propria identità proprio nella relazione con l’altro: “L’altro non è un peso o un limite per l’io ma una voce che lo chiama per nome, che gli rivela la sua identità”.

Una relazione che può tuttavia implodere in se stessa, pertanto Lévinas introduce una realtà altra, il “terzo”, che impedisce questa implosione.

Chi è il terzo? “Il “terzo” è l’umanità intera negli occhi che mi guardano” (Lévinas). Il terzo è costituito dalle molteplici mediazioni messe in atto dalla cultura, dalla storia e dalla civiltà, dalle quali non si può astrarre e che riguardano l’esistenza quotidiana, l’aspetto pubblico della vita. La cura per l’altro non si risolve pertanto in una relazione duale e simmetrica ma deve coinvolgere appunto il terzo, che metterebbe “un po’ di buon senso nella possibile follia del faccia-a-faccia con l’altro” (Daniel Sibony).

3- Il sottotitolo dell’intervento mette in evidenza la linearità ma anche criticità di una relazione. Criticità risolta dalla introduzione della figura del terzo ma soltanto in parte. Il terzo compenserebbe ciò che il soggetto nel suo slancio appassionato per l’altro non riuscirebbe a raggiungere e, inoltre, impedirebbe l’oppressione di una relazione troppo esigente. Ma per Sibony è proprio il tema del terzo inteso come forma sociale organizzata e istituita a rendere l’etica levinasiana “banale e persino deludente”, una “ricercatezza di pensiero” che porta a rimettersi alle istituzioni intese come oggettive. Ma in realtà queste stesse istituzioni hanno pregiudizi e pretese narcisistiche, per cui non si può contare sulla loro morale. (cf. D. Sibony, Don de soi ou partage dei soi?, p. 32).

4- Il titolo del libro di Sibony introduce un altro tema delicato riguardo alla relazione / cura dell’altro: si tratta veramente di cura o piuttosto di un’azione di soddisfazione del soggetto, una assoggettazione dell’altro, nella quale l’io rimane centrato su se stesso e chiuso nel suo appagamento?

La conclusione: vi può essere dono o cura dell’altro soltanto se vi è una “condivisione”, uno scambio reale, una relazione di libertà reciproca.

Nota

La relazione avrà un taglio filosofico-esistenziale: lo spunto lo prenderò da Lévinas, in cui il tema della relazione e cura dell’altro (tradotto in termini di prossimità e di responsabilità) è centrale. Sullo sfondo e in dialogo con Lévinas farò riferimento ad alcuni di autori che si mostrano critici verso un concetto di cura sostanzialmente ottimistico e anche molto suggestivo, com’è quello di Lévinas.

Il riferimento sarà a Daniel Sybony, di origine ebraica, psicanalista e studioso della tradizione ebraica midraschica e talmudica; a Derrida, che ha trattato nei suoi scritti soprattutto il tema dell’ospitalità, strettamente legato alla cura; a Martin Buber, che formalizza la relazione io-tu.

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«Prevenire è meglio che curare

Fabio Quartieri

Uno slogan diventato quasi un dogma. Possiamo non interrogarci su un assioma così pervasivo, che pone l’accento su un certo modo di esprimere la cura? Nonostante la sua indubbia pertinenza in molti campi e il suo innegabile successo, rimane l’impressione che esso non possa armonizzarsi col principio secondo cui «la realtà è superiore all’idea» (EG 231) e non sia dunque di aiuto nella riflessione teologica e nella prassi ecclesiale. Con alcuni “sondaggi” (inerenti la teologia della creazione, l’ecclesiologia, …) tentiamo di verificare l’ipotesi.