«Chi è l’essere umano, che ci si prende cura di lui?»

Federico Badiali – Paolo Boschini

La cura non presuppone sempre che ci sia un male da sanare. A volte significa semplicemente accompagnare, custodire, far crescere. Due domande articolano questa riflessione antropologica a quattro mani, a ponte tra teologia e filosofia.

  1. Perché l’essere umano ha bisogno di cura? La filosofia relazionale del XX sec. risponde con tre parole. Finitudine: l’uomo non è fondamento di se stesso. Dono: l’altro apre al riconoscimento di se stessi. Responsabilità: affrontare la condizione umana nel mondo con una visione prospettica e con uno stile progettuale.
  2. Quale forma assume l’umano, se è vero che esso è comunque tale da necessitare cura? L’antropologia di origine biblica supera la visione bipartita dell’essere umano come soggetto e/o destinatario della cura. Egli è anche il canale della cura. È la via attraverso cui la cura entra nel mondo e plasma la sua capacità relazionale e tutto ciò con cui egli ha a che fare.

Rileggendo i testi biblici di creazione alla luce di Laudato Si’ n. 80, il dialogo tra teologia e filosofia analizza tre nuclei teoretici fondamentali della cura: a) la sua potenza terapeutica e trasformante, generatrice di speranza; b) il suo essere vita, in quanto atto di creazione, inteso come dare un fondamento relazionale alla realtà; c) il suo essere principio del nostro diventare umani attraverso l’educazione intesa come valorizzazione comunitaria delle capacità personali.

La relazione si conclude con una riflessione teologica sulla relazione tra la creazione dell’essere umano a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26) e la predestinazione in Cristo (Ef 1,5), come formulazioni del legame intrinseco tra creazione e redenzione, reso più comprensibile dal concetto di cura qui formulato.

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«C’è un volto femminile della cura? E uno maschile?»

Linda Pocher, Fma

Non c’è differenza tra maschi e femmine nella cura. A questa concorde conclusione sono giunte le ricerche, su base empirica, sviluppate da diverse équipe di psicologi e da una schiera di intellettuali femministe, in seguito alla querelle degli anni 70 del secolo scorso tra Lawrence Kohlberg e la sua allieva Carol Gilligan.

Nonostante questo, credo sia importante rilevare il fatto che, perlomeno nello sviluppo contemporaneo del tema, l’interesse per la domanda è stato sollevato per la prima volta da una donna: è stato cioè necessario uno sguardo femminile, per riconoscere e formalizzare dal punto di vista teorico qualcosa come un’etica della cura, in contrapposizione o come necessario completamento di un’etica della giustizia, ritenuta piuttosto propria dell’approccio maschile alla vita e alle cose del mondo.

Proprio per questo ritengo che la domanda sia lecita ed opportuna, nonostante le molte difficoltà e “pericoli” che si incontrano nel tentativo di formulare una risposta.

La mia proposta prende avvio da una fenomenologia della gravidanza, in quanto unica esperienza di cura esclusivamente femminile. Trattandosi di una esperienza in cui la dimensione biologica è particolarmente determinante, si può sperare di non prendere troppo facilmente aspetti culturali per caratteristiche dipendenti dal sesso del soggetto.

Mi servirò di una definizione “di lavoro” della cura, secondo la quale la cura è una azione

  • che tocca un bisogno concreto del destinatario e interessa la totalità della sua persona (il corpo) = aspetto concreto della cura
  • che implica il riconoscimento del valore/identità dell’altro (la parola) = aspetto simbolico
  • che si realizza necessariamente in un rapporto di potere, a causa dello squilibrio di mezzi e di possibilità tra i due attori coinvolti e dunque sfida la libertà di entrambi

Questi tre aspetti sono presenti nella relazione madre-bambino già nel tempo della gravidanza, secondo una configurazione tipica che permette di delineare i tratti materni e dunque femminili della cura. Soprattutto dopo la nascita, tuttavia, la madre biologica non è necessariamente l’unica persona che può e deve prendersi cura del bambino. In quali elementi la cura offerta da altre figure, in particolare la figura paterna, assomiglia e in quali differisce rispetto alla tipologia materna precedentemente delineata?

Le parole, i gesti, le immagini che appartengono al campo semantico della cura materna, infine, sono ampiamente utilizzati dalla Scrittura per descrivere la cura di Dio nei confronti della sua creazione. Ed importante notare il fatto che anche l’utilizzo teologico della simbologia materna e femminile conosce un suo sviluppo, il quale attraversa un momento di svolta fondamentale nel passaggio dall’ebraico al greco, dal punto di vista linguistico, dal punto di vista antropologico nel modo in cui il Figlio fatto uomo – maschio! – Gesù intrepreta quei gesti e li fa propri.

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«La cura della casa comune: genitivo oggettivo (la casa va curata) o soggettivo (la casa si prende cura di noi)?»

Una declinazione transculturale del tema nella prospettiva di una teologia africana: è la casa comune che si prende cura dell’uomo.

«La cura della casa comune nella cultura negro-africana. Spunti di una ecoteologia africana»

François Ndayizeye

La domanda che guida questa riflessione è: «Cosa direbbe l’ecotelogia radicata nella cultura negro-africana sulla cura della casa comune oggi?».

Prima di tutto bisogna capire come la realtà che sta dietro a questa immagine di «casa comune» viene reinterpretata nella cultura negro-africana. Il primo punto che vogliamo trattare è dunque la maniera africana di abitare la terra. Analizziamo la cosmologia africana dove il negro-africano si percepisce come facente parte di una megacomunità che comprende i vivi, i morti, i non-ancora-nati e l’alterità ecologica (animali, piante, minerali, etc.). Tutti quanti formano una comunità di vita, sono in relazione come vasi comunicanti in cui circola lo stesso flusso di vita che viene dalla stessa Fonte vitale (Dio). Questa megacomunità è una vera casa comune dove l’uomo e ogni essere creato è curato con il concorso di altri membri.

Il secondo punto riguarda l’etica ecologica africana. Come l’Africano comprende e vive la sua responsabilità nel creato? Come dice A. Ngindu Mushete, secondo la comprensione africana, diventare persona umana, «è diventare un fascio di relazioni interpersonali che uniscono il proprio soggetto alla comunità umana e alla totalità del cosmo»[1]. L’uomo africano non si impone come conquistatore verso la natura; il rapporto con essa non è un rapporto soggetto-oggetto, ma egli la considera come un partner. Meglio ancora, come un prolungamento del suo «essere nel corpo». Con la sua grande sensibilità per la stessa vita che circola in lui come in tutte le creature, l’Africano è portato a favorire sempre la fioritura della vita nel mondo. È realmente peccato ogni atteggiamento o atto volto a ostacolare o a nuocere la vita. Si deve notare che la vita, secondo questa cultura, non si limita a ciò che chiamiamo esseri animati, ma ne partecipano in un certo modo tutti gli elementi del cosmo.

Nel terzo punto, mettiamo anche alla luce le minacce attuali contro la spiritualità africana. La cosmologia e l’etica ambientale radicata nella cultura negro-africana dovrebbero permettere la fioritura e la maturazione d’una spiritualità africana in grado di arginare il corso della distruzione dell’ambiente in atto oggi in Africa. Ma la crisi ecologica in quella parte del mondo è tra le peggiori. Una delle spiegazioni (senza che ciò suoni come una giustificazione) è che in molte parti dell’Africa, colonizzazione, «cristianizzazione» senza rispetto della cultura e campagna di «occidentalizzazione» hanno creato un complesso di disordine antropologico ed ecologico nella vita dell’Africano e del suo ambiente. Ora, egli deve imparare ad avere fiducia di nuovo in se stesso e nei suoi valori e risorse. Infatti, oggi, l’Africa non è sana, ha bisogno di essere curata (per il bene di tutta l’umanità) perché ha contratto molti virus e ora è malata[2].

L’ultimo punto del nostro intervento parla di un contributo dell’ecoteologia africana alla cura della casa comune. La sfida è evidente: il discorso teologico credibile sul suolo africano è quello che riabilita e rivitalizza la personalità africana. E, come già detto, questa personalità è altamente ecologica. La teologia della casa comune, che chiamiamo qui ecoteologia, deve caricare sulle proprie spalle quel peso che tende a soffocare la cultura ecologica africana e lavorare alla liberazione dell’uomo e del creato. Così il teologo africano che si occupa della cura della casa comune potrà sperimentare la gioia del Buon Pastore e dire: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (Lc 15, 6). Infine, l’ecoteologia non può essere altro che ecumenica nel senso che essa dialoga con tutte le culture, con la religione tradizionale africana, con le scienze e la politica. È in questo dialogo che l’ecoteologia africana potrà dare il suo contributo alla cura della casa comune.

[1] A. Ngindu Mushete, Les thèmes majeurs de la théologie africaine, L’Harmattan, Paris 1989, 93.

[2] Benoît XVI (Pape), Homélie pour l’ouverture de la deuxième assemblée spéciale pour l’Afrique du synode des évêques, Libreria Editrice Vaticana, Vatican 2009, §4.